Riprendiamo dal Blog dell’autore, Angelo Ferracuti,questo articolo che descrive il contesto dal quale è nata l’idea del libro “Il costo della vita”, una spoon river del sacrificio pagato in vite umane ai nascenti modelli post moderni di gestione del lavoro e della produzione dei quali Mecnavi era precursore
Ricordando la Mecnavi e il mio libro


Arrivai una sera con il mio amico fotografo Daniele Maurizi, e già la mattina successiva eravamo al lavoro al Molo San Vitale dove i nuovi portuali che andavano a lavorare nelle navi erano tutti stranieri. Proprio lì dove eravamo una mattina di vent’anni prima mentre alcuni operai stavano ripulendo le stive della Eli¬sabetta Montanari, nave adibita al
traspor¬to di gpl, e altri colleghi contemporaneamente tagliavano e saldavano lamiere con la fiamma ossidrica, una scin¬tilla provocò un incendio. Le fiamme si propagarono con una rapidità inarrestabi¬le, e quei tredici uomini morirono asfissiati a causa delle esalazioni di acido cianidrico. Si chiamavano Filippo Argnani, che all’epoca aveva quarant’anni, Marcello Cacciatori, che di anni ne aveva ventitre, Alessandro Centioni, ventuno, Gianni Cortini, diciannove, Massimo Foschi, ventisei, Marco Gaudenzi, diciotto, Do¬menico Lapolla, venticinque, Mohamed Mosad, trentasei, Vincenzo Padua, ses¬sant’anni, che stava per andare in pensio¬ne. Presto si scoprì che quel giorno nel cantiere mancava completamente un piano di emergenza. Lo racconta con dovizia di particolari Rudy Ghedini nel suo libro Nel buio di una nave, edito da Bradipo Libri nel 2007: “l’organizzazione del lavoro si rivelò palesemente approssimativa. Era noto che nella pulizia dei doppifondi poteva spargersi materiale infiammabile, ma sulla Elisabetta Montanari queste operazioni venivano compiute mentre altri lavoratori stavano usando la fiamma ossidrica. Non risultavano installate l’illuminazione e la segnaletica di sicurezza. Mancava un piano d’emergenza. Secondo i periti del Tribunale, l’areazione dei doppifondi era totalmente inadeguata per l’insufficienza tecnica dell’impianto di ventilazione. (…) Il numero dei lavoratori era eccessivo rispetto alla capacità di deflusso della via di fuga, per alcuni di loro quei luoghi bui e pieni di fumo erano sconosciuti, trattandosi del primo giorno di lavoro. La maggior parte delle vittime non ce la farà ad abbandonare il piano di stiva, tre non riusciranno nemmeno a uscire dal doppiofondo.”
E si scoprì che l’organizzazione del lavoro della società Mecnavi dei fratelli Arienti era basata su un sistema selvaggio di subappalti, lavoro nero e caporalato, sfruttamento e disprezzo delle regole. I processi nei tre gradi di giudizio si chiusero con una beffa. Pene gradualmente ridotte, nemmeno un giorno di galera per i responsabili, in particolare per Enzo Arienti, che continuò poi indisturbato la sua attività nei cantieri navali di Termoli, indagato nel frattempo per una presunta truffa alla Comunità europea.
Vent’anni dopo però tutto era cambiato, i sistemi di sicurezza parevano tra i migliori del paese in quello stabilimento, non so se era una rappresentazione orchestrata alla bisogna perché arrivava il sottoscritto a ficcare il naso, o fosse realmente così. Sta di fatto che tutto sembrava al proprio posto. Gli estintori, le prese d’aria, e gli operai che lavoravano mi parvero abbastanza tranquilli, anche se non mi riuscì di avvicinarli e parlare con loro. Però non dimenticherò i loro volti antichi, anneriti dai fumi, le facce coperte dalle mascherine azzurre, i caschi ben calcati in testa e gli occhialini rotondi in metallo arrugginiti dei saldatori. Sembravano i minatori fotografati da Sherbell, o da Eugene Smith. Molti di loro erano africani, altri dei paesi dell’est indossavano tute logore e guanti incatramati, sporchi di grasso, giravano circospetti nella nave, scendevano nei bassifondi. Ricordo che verso mezzogiorno, quando uscirono per la pausa pranzo, sfilarono su una scaletta uno dietro l’altro mentre parlavo con un capoturno che mi spiegava come lavoravano.
Cinque anni dopo il mio viaggio fatto per “Rassegna”, quelli dell’Einaudi, ai quali avevo proposto una raccolta di reportage scritti soprattutto per la rivista “Diario”, mi chiesero di isolarne uno e di farne un libro intero, così mi tornò in mente quella storia, anche perché è un prototipo italiano, è quella storia particolare ma le contiene tutte, con le stesse identiche dinamiche. Così iniziai a prendere i primi contatti e, soprattutto, chiesi a Mario Dondero, che era lì in quei drammatici giorni, di illustrare il lavoro che avrei fatto; ottenemmo così un ingaggio dalla casa editrice e cominciammo ad andare a Ravenna per le prime ricognizioni.
Mario Dondero e una vera leggenda del fotogiornalismo. Collaboratore di giornali come “L’espresso”, “Le Monde”, “le nouvel Observateur”, “Le Figaro”, “la Repubblica” (e sin dalla sua nascita “il manifesto”), ha cominciato negli anni Cinquanta al Bar Jamaica a Milano con Luciano Bianciardi, Ugo Mulas e amici artisti come Piero Manzoni. Ha fotografato scrittori (Beckett, Grass, Pasolini, Elsa Morante tra gli altri), e scene di lotta di classe e ribellione politica in giro per il mondo. Leggendarie sono le sue foto del gruppo di autori del Nouveau Roman, scattate a Parigi nell’ottobre del 1959 davanti alla sede delle Edition de Minuit, e quella rubata ad Atene il 3 novembre 1968 al processo contro l’eroe greco Alekos Panagulis, che fece il giro del mondo. Per lui é importante esserci. Infatti il giorno dopo la tragedia della Elisabetta Montanari era a Ravenna, come le foto del libro che abbiamo fatto insieme testimoniano.
Mi piacciono le storie dal vero, quelle che uno racconta vivendole, che il più grande maestro del reportage narrativo, Ryszard Kapuscinski, definisce così: “ha di solito molti autori ed è grazie a un’usanza invalsa da tempo che firmiamo un testo solo con il nostro nome. In realtà forse si tratta del genere letterario più collettivo che esista, giacché alla sua nascita contribuiscono decine di persone: gli interlocutori incontrati sulle strade del mondo che ci raccontano la storia della loro vita e della società alla quale appartengono, oppure eventi ai quali hanno partecipato o di cui hanno sentito parlare da altri. Questi estranei, a noi di solito sconosciuti, oltre a rappresentare una delle più ricche fonti di conoscenza del mondo, aiutano anche il nostro lavoro in molti altri modi, che vanno dal favorire i nostri contatti con altre persone al metterci a disposizione la loro casa, fino a salvarci addirittura la vita”.
Quest’ultima cosa non è stata nel caso specifico necessaria, ma in oltre due anni di ricerche e di “corpo a corpo” con la memoria dispersa sono tornato a Ravenna molte volte, taccuino a portata di mano, registratore digitale in tasca, notti insonni passate in albergo a trascrivere le interviste che avevo fatto durante il giorno, a descrivere i posti dove ero stato per paura di dimenticarli. Preso da molte letture (Orwell, Lee Masters, Cronin, Gadda, persino Kafka) ricerche negli archivi, negli atti processuali. Ho incontrato i sindacalisti di allora, in particolare Antonio Pizzinato, Beppe Casadio, Giacinto De Renzi, quelli di oggi, alcuni operai sopravvissuti, i cronisti e i fotografi della stampa locale, davvero preziosi, i vigili del fuoco che estrassero i corpi, il medico che fece le autopsie, i barellieri, gli infermieri, gli autisti delle ambulanze, il cardinale Ersilio Tonini, quasi centenario, che paragonò quegli operai ai topi per via delle condizioni disumane di lavoro ai quali erano sottoposti e, naturalmente, sono andato a visitare anche i familiari delle vittime che ancora avevano voglia di ricordare quella storia; e volato persino al Cairo, per parlare con i parenti del picchettino Mosad nel quartiere antico raccontato da Naguib Mahfouz. I reportage narrativi sono libri imprevedibili, deragliano continuamente, e tu li scopri giorno per giorno, crescono un po’ come crescono gli anni, l’esperienza, le nostre consapevolezze, sono la cosa che più si avvicina alla vita vera, e proprio per questa componente di realismo mi piace moltissimo scriverli, anche se sono più faticosi di quelli di finzione, che puoi comodamente iniziare e finire nel tuo studio, senza viaggiare, salire sui treni o fare lunghi viaggi in macchina, ma che perdono quella componente di umanità assolutamente necessaria per i reporter. Non mi vergogno a dirlo, ma oltre a un interesse etico sempre molto forte agisce in me anche la curiosità per le persone, come sono e vivono, i mestieri che fanno, le case che abitano, insomma per ciò che viene definita la commedia umana. In me funzionano sempre le quattro fondamentali ragioni per scrivere di cui parlava Orwell, cioè il semplice egoismo, l’entusiasmo estetico, l’impulso storico e lo scopo politico. Infatti quello che più mi colpì di quella storia era proprio il momento epocale. Di lì a poco sarebbe crollato il muro di Berlino, e andati in frantumi molti edifici del pensiero del ‘900, quella vicenda ventisei anni fa annunciava l’avvento di una nuova, nefasta idea del mondo e di società: quella del liberismo sfrenato, in cui l’imperativo del profitto diventava assoluto, e la vita umana un valore marginale. Oggi quel libro c’è, si intitola “Il costo della vita”, ed Einaudi lo manderà in libreria il maggio prossimo. Reca una epigrafe alla quale sono molto affezionato: “Il mondo si divide in due: chi ha la pistola carica e chi scava. Tu scavi.” La frase è pronunciata da Clint Eastwood in Il buono, il brutto e il cattivo di Sergio Leone, e coglie profondamente il senso della condizione operaia nel mondo del lavoro globalizzato di oggi.
Questo articolo è uscito su “Rassegna sindacale”
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Di Angelo Ferracuti il 11/04/2013 alle 14:58